Ascolto il tuo cuore, città*
Anty Pansera
Rapidi scambi davanti al computer, una domenica pomeriggio di giugno.
Io: “Guido, anche tu davanti al computer? Non siamo normali”.
Lui: “Meno male che io gioco anche con la terra!”.
De Zan non è solo un ceramista ma è una figura complessa di artista che utilizza più media: dalle incisioni a secco alle acqueforti, dai lavori su carta alla fotografia, dalla pittura a olio ai disegni a pastello, e comunica con scritti che esprimono anch’essi esperienze forti ed emotive, e con la pubblicazione di piccoli, preziosi libri. Artigiano delle terre, allora, ma anche raffinato intellettuale: la sua formazione e un coerente percorso ben spiegano, credo, la sua filosofia/metodologia creativa e progettuale, e il suo mood.
Usare la mano
Formazione “intorno” al fatidico Sessantotto, all’insegna della Critica della società repressiva di Herbert Marcuse: si muovono gli studenti (a Milano, occupazione dell’Università Cattolica e della Statale), si muovono gli operai (nel 1969 sarà ‘autunno caldo’ per tutto il triangolo industriale del Nord), e si muove anche il design, che diventa radicale ed entra in contraddizione con sé stesso.
Classe 1947, milanese, dopo aver frequentato un istituto per geometri, Guido si è iscritto nel 1969 alla Facoltà di Sociologia di Trento: luogo topico e momento cruciale nella storia non solo universitaria, e non solo trentina. Siamo ormai entrati nel decennio ’70 che, in Italia, si apre, per consuetudine e non solo nella penisola, con una data diventata uno slogan, il Sessantotto, e si chiude con il 1979, un periodo definito anche ‘anni contro’. Durante questo lasso di tempo si succedono momenti ricchi di esperienze per De Zan: non frequenta l’università, ma lavora e studia per sostenere gli esami, avvicinandosi alle problematiche della discussione di modelli sociali e culturali consolidati, lasciandosi coinvolgere dalla voglia di sperimentare e interessandosi ai temi della devianza psichica e dell’inclusione sociale in prospettiva sociologica. Si cercano nuovi equilibri.
Già allora, da autodidatta, propone negli ormai mitici mercatini alternativi, all’insegna dei festival de l’Unità e/o extraparlamentari, la sua primissima produzione. Realizza ‘cose semplici’ – ricorda –, borse di cuoio, piccoli oggetti d’uso e di decoro per il corpo. È attratto dalla manualità, dal fare con le mani. E se “segno distintivo dell’uomo è la mano”, come ha scritto George Orwell, ed è “lo strumento con il quale fa tutto ciò che è male”, per Guido, e non solo (!), possiamo aggiungere che la mano fa anche ciò che è bene e... fa il bello. Immanuel Kant le definiva felicemente “finestre della mente”. E sono proprio le mani che permettono a Guido di esprimersi, di raccontare e raccontarsi, all’insegna, sempre, del ‘fatto ad arte’. Sulla mano, e proprio su quelle di De Zan, si accentrano una serie di versi di Eugenio Alberti Schatz, che commentano, a guisa di didascalie, pubblicate in La mano che guida, (2016), poesie da leggersi di fronte alle immagini:
La prima bestia dell’uomo è la mano
sa solo scalciare agli albori
bisogna domarla e istruirla come il principe di un’isola.
Si tratta di un elegante quadernetto stampato in 200 copie, dove a postfazione lo stesso artista scrive sulle sue “mani rabdomanti”: “[...] Quando inizio a toccare con le mani la materia, mi sento più calmo e più libero di continuare. [...] senza un pensiero le mani non possono andare molto lontano [...] sento che il mio lavoro è segnato da una forte esigenza di libertà e che le mani sono state il principale strumento che ho usato per raggiungerla [...]”. E conclude: “Ho sempre saputo che le mani sono le vere protagoniste del mio mestiere”.
Forse, sottolinea, è casuale il suo avvicinarsi e approfondire sempre più le dinamiche delle terre. Lo affascinano prima l’Oriente e la cultura giapponese. Dal 1973 è in stretto contatto con amici nipponici, anche perché fra le prime a frequentare il laboratorio ci sono le sorelle Michiyo e Jukio Murakami. E lo attrae poi la tecnica del raku, di cui apprezza la sobrietà, e che gli permette di realizzare oggetti anche simbolici, tazze per la cerimonia del tè, vasi e pannelli decorativi. Saranno i diversi utilizzi del grès e della porcellana, che affronterà soprattutto dalla fine degli anni ’80 – materiali che richiedono per la cottura temperature molto elevate e una ricerca particolare sia riguardo agli impasti sia alla composizione degli smalti, di cui segue tutti i cicli di lavorazione dal progetto al lavoro finito –, a supportarlo nella creazione di vasi e sculture, in cui declinare ricerca/sperimentazione. Le terre vengono cotte al limite della loro resistenza, acquisendo particolari, affascinanti consistenze e colorazioni, e impercettibili deformazioni (è il forno che comanda!), avvicinandole all’universo minerale e naturale.
Alla scuola del fare
Ma quando De Zan inizia davvero a confrontarsi con le terre e a entrare nel mondo vastissimo e intrigante della ceramica? Sulla costa romagnola per lavoro, ha occasione di visitare degli artigiani nel borgo di Montefiore Conca, piccolo centro nel cuore della Romagna, dove da sempre si pratica la ceramica. Ne viene affascinato. Ecco poi la più incidente esperienza nel Levante ligure, da Claudio Nobile, che dalla natia Tripoli (dove era nato nel 1938 e vivrà fino al 1954) aveva iniziato a praticare l’arte del vasaio in Norvegia, assistente di Jens von der Lippe (docente alla National Academy of Craft and Art Industry di Oslo), perfezionandosi poi nella tecnica del grès e aprendo a Framura, nel 1971, il suo laboratorio. Intanto Guido legge e studia, libri stranieri soprattutto (desolante il panorama italiano), e alcuni testi di Nino Caruso – maestro della scultura ceramica italiana, ma anche didatta (nato a Tripoli anch’egli, come Nobile, e avvicinatosi per caso a questo universo) –, saggi pubblicati da Hoepli, come Ceramica viva (1979) e Ceramica Raku (1982).
Così nel 1993 Guido De Zan, fattosi editore per l’occasione con la ceramista Enrica Negri e proponendolo nella versione italiana, darà alle stampe Il poema ceramico. Introduzione all’arte del vasaio di Daniel de Montmollin, quel frère Daniel della Comunità di Taizé, in Borgogna – comunità cristiana monastica ecumenica e internazionale fondata nel 1940 all’insegna dell’ora, lege et labora –, dedicato a uno dei pionieri della ricerca nel campo della ceramica in Svizzera: Philippe Lambercy. Ovvero quel Le poème céramique. Introduction à la poterie uscito per la prima volta nel 1964, che è stato (e che è), come sottolineano De Zan e Negri nella quarta di copertina, “una risposta ai molti interrogativi che si pone colui che desidera accostarsi al mondo della ceramica sia per ragioni professionali che per curiosità e interesse verso questo ‘fare’ che lega in un sol nodo espressione e mestiere, tradizione e ricerca”.
È un progetto/prodotto significativo, da non dimenticare nel percorso di Guido. E che mi fa ricordare quel primo incontro con lui, nell’ormai lontano 1983, per la rassegna che curai con Nanni Valentini – la mia straordinaria guida/mentore nel mondo delle terre – in quel di Casteldurante, nel Palazzo Ducale di Urbania, L’arte del vasaio. La ceramica d’uso fatta a mano in Italia (catalogo Paleani editrice, Roma). Anche Guido è presente fra i 19 artieri selezionati nelle diverse regioni d’Italia, con il suo Laboratorio Il Coccio, e una squisita teiera verde in maiolica con manico di bambù a rappresentarlo: “Forgiata al tornio [...] il raku cotto in un forno a gas costruito in proprio [...] la smaltatura in riduzione a 900-950° [...] la decorazione a pennello o con la tecnica del graffito [...] i pezzi sono firmati con le iniziali” si legge nella didascalia. Molti pezzi raku, poi, in mostra. Nella breve scheda di presentazione scrivevamo: “Le ceramiche di De Zan propongono una sintesi tra il gusto moderno e la grande tradizione vascolare italiana attraverso forme destinate alle esigenze quotidiane e inserite in una cultura di tipo urbano”.
Conquista De Zan anche la magia del tornio, il più antico macchinario inventato per la lavorazione della terra – una manipolazione non facile, frutto di una disciplina che richiede grande manualità, impegnativa da acquisire in età adulta –, tanto che se ne costruisce da solo uno a pedale, con l’aiuto di uno zio meccanico, e consultando manuali! (Nobile si era costruito personalmente il forno...). Vi si siede dinnanzi per la prima volta all’età di ben ventotto anni, dopo aver lavorato per quasi un decennio come educatore in un centro del Comune di Milano per ragazzi con disabilità mentali, dopo la laurea a Trento nel 1974: e dimostra il suo talento, acquisendo/conquistando una raffinata perizia/destrezza. Si era anche iscritto nel 1975 ‘perfino’ alla Scuola Cova di corso Vercelli, un Centro di formazione professionale fondato da quell’Irene, bravissima ceramista che negli anni ’30 non poteva trovare realizzazione, dacché donna, se non nell’insegnamento, e proprio per cimentarsi con i segreti del tornio. Ma non ci sono più ad insegnarvi artisti come Valentini e Carlo Zauli: una delusione per lui, e gelosie da parte dei mediocri docenti che scoraggiano gli ‘adulti’ particolarmente nei confronti dell’arte del tornire.
Ai primi anni ’80 sarà attivamente partecipe della rivitalizzazione, con un gruppo di artigiani, della sezione italiana del World Crafts Council, organizzazione internazionale non governativa fondata nel 1964 e riconosciuta dall’UNESCO per “accreditare l’artigianato quale parte essenziale della vita economica e culturale, per promuovere la solidarietà tra gli artigiani nel mondo e per fornire loro aiuto, incoraggiamento e stimolo”. Presidente nazionale Lyda Levi, ma è intorno a Gabriele Devecchi (argentiere, architetto e fra i componenti del gruppo T di Arte Cinetica), presidente della sezione lombarda dal 1982 al 1985, che si riunisce un gruppo di artieri made in Italy, una ventina di artigiani/artisti, fra i quali le textile designer Paola Besana e Paola Bonfante, Anne Marie Ciminaghi, Anne Backhaus, Franca Sala, il gioielliere Davide De Paoli, la ceramista Enrica Negri e Pia Quarzo Cerina, socia e responsabile della comunicazione, gruppo che diede vita a incontri in via Gorani 8, nello storico laboratorio di Piero De Vecchi, con figure del mondo della cultura del progetto come il designer Piero Castiglioni e il modellista Giovanni Sacchi, e a piccole esposizioni dei lavori.
Casa e bottega
La prima bottega di De Zan è in via Cermenate, a Milano, al Ticinese, aperta nel 1975 con due amici poi persi per strada. Ma ecco nel 1978 il suo laboratorio, in via Pio IV, piccola strada pedonale caratterizzata oggi da colorati murales che raccontano storie, sul lato sinistro della basilica di San Lorenzo, fra le Colonne, il luogo più conosciuto della Milano romana, e piazza Vetra. Ha ancora il forno e cuoce in campagna, nel varesotto, ad Azzate: il raku ha bisogno di spazi aperti, ma in città Guido utilizza già un forno elettrico.
Uno spazio tranquillo, in una zona molto popolare, e che passa (a tutt’oggi!) quasi inosservato. È una scelta anche questa, a latere oggi di una movida solo notturna però, che è quanto più lontano si possa pensare dall’essere di Guido. Il Coccio: questa è la nominazione della sua bottega/atelier, certo voluta, nei suoi molteplici significati, a ricordare la “terracotta ordinaria, di poco pregio”, i “pezzi del vasellame per la tavola e la cucina; i cocci ovvero le stoviglie”, il “frammento di vaso o di altro oggetto di terracotta”. Laboratorio/porto di mare, dove da ormai quarant’anni Guido incontra clienti/collezionisti ma soprattutto amici, e dove si sono succeduti e si succedono allievi (ha tenuto anche corsi serali, nel 1979-1980), diventati poi assistenti – da ricordare almeno Edith Morandi, che continua ancora oggi ad affiancarlo nell’assemblaggio dei vasi realizzati a lastra –, provenienti da ogni parte del mondo, accolti e ospitati con attenzione e generosità, stimolati ad apprendere un mestiere d’arte che non è fatto solo di manualità. Vi passa un pubblico eterogeneo, certo. È un vicolo di transito ma ai più il laboratorio sfugge, luminoso/ polveroso affascinante (soprattutto all’interno) luogo invisibile. E purtroppo, colpevolmente, lo ignorano anche gli studenti – e i docenti – di uno dei licei artistici cittadini che ha sede nel vicino Istituto d’istruzione superiore statale Carlo Cattaneo, in piazza Vetra.
La sua casa/studio/galleria è invece in via Brioschi 26, al confine con lo storico quartiere della Baia del Re, oggi rinominato Stadera. Periferia sud, alle porte del centro, vicino alla Bocconi: in un edificio un tempo industriale, fabbrica di tappi di sughero. Si affaccia su un cortile che sfoggia piante della tradizione, come un rigoglioso e fruttifero caco, che nel suo aspetto invernale spoglio e bruno, al nostro più recente incontro nel mese di novembre, era rallegrato da frutti arancioni, originali decorazioni da albero di Natale.
Qui organizza/progetta spesso, e da vent’anni, anche mostre, a volte a quattro mani, per dare segnali che si affiancano alle numerose rassegne monografiche e collettive di cui è stato protagonista. Qui ha celebrato nel 1998 con una grande festa i suoi primi vent’anni di lavoro e, sempre negli anni ’90, ha ospitato esposizioni di gioielli: suoi, di Monica Castiglioni e di Natsuko Toyofuku, accomunate non solo dall’essere ‘figlie d’arte’ (di Achille la prima, architetto e designer di chiarissima fama, che ha sempre apprezzata la ricerca di De Zan; di Tomonori la seconda, importante scultore giapponese che nel 1960, dopo un invito alla Biennale di Venezia, decise di stabilirsi in Italia), ma anche dalla ricerca e dalla creazione di sculture da indossare, sinuose, avvolgenti e di indefinibile eleganza.
Per restare agli anni più recenti, eccolo esporre nel 2015 con l’artiere lodigiano Tonino Negri, che propone racconti fantastici e visionari. Nel 2016 con l’ex allieva Tamami Azuma, che propose sue particolari donabe: vasi di terracotta, pentole per cucinare a tavola su una fiamma libera. E nel 2017, con Isabella Angelantoni Geiger, Cityscapes, per mettere a confronto i loro lavori sullo skyline della città in ceramica e filo di ferro, in uno stimolante dialogo sulla nuova aria urbana che da qualche anno tira su Milano.
Fotografia e segni in città
‘Creatura di città’, ‘animale urbano’ (lo avevamo già scritto nel 1983!), ogni mattina De Zan percorre a piedi il tragitto casa/bottega. Da buon camminatore, nei decenni ha esplorato la città, documentandola prima con la macchina fotografica, poi con il cellulare, e procedendo poi, in certi casi, con rielaborazioni al computer.
“La mia passione per la fotografia risale alla fine degli anni ’60, quando acquistai una Nikon usata”, ha commentato in occasione di una sua rassegna nel 2011 alla Fondazione San Domenico di Crema, dove ricorda anche (vedi il catalogo con bel calendario e agenda pubblicati con sue foto e pezzi ceramici, commissionati da Umberto Cabini proprio quell’anno per ICAS) come abbia dapprima accentrato il suo interesse sulle persone, sviluppando da solo in un’improvvisata camera oscura, ma come poi abbia prestato attenzione soprattutto alle forme urbane perché nei “palazzi milanesi [...] la mescolanza di diverse architetture esalta ogni edificio e le sue caratteristiche”.
E si è fatto ossessionare da alcuni edifici, ai quali ha dedicato attenta curiosità per poterli riprodurre/riproporre in sculture in grès e porcellana bianca, cotta, biscuit, ‘paesaggi’ di inusitata bellezza – siamo nella prima metà degli anni ’90 – che si incarnano suggerendo una particolare lettura della città improntata alla percezione dei volumi e del pieno. Torri, innanzitutto, alle quali ha dedicato anche un omonimo volumetto (100 copie, pubblicato nel 2012), per le loro “caratteristiche di potenza e forza ma anche di elevazione ideale verso l’infinito” (Guido De Zan), piramidi, ziggurat, cattedrali e poi la Velasca (in porcellana nel 2009, in grès nel 2012) e i grattacieli.
Così ha dedicato un intero anno di riflessioni e lavoro (2010/2011) al grattacielo Pirelli – “un grattacielo leggermente alto”, secondo la definizione di Bianca Tosi, in una plaquette uscita per le edizioni Pulcinoelefante – realizzando e mettendo in scena su questo tema una selezione di articolate tipologie materiche: un centinaio di vasi, piccole sculture in grès e porcellana ma anche carte, disegni e fotografie, nonché i Tre Pirelli da viaggio (Lucini, Milano 2010), un’edizione limitata in 200 copie numerate e firmate, che ripropone la forma essenziale dell’edificio in tre varianti. È un omaggio a Gio Ponti ma anche a Bruno Munari e alle sue sculture da viaggio realizzate con la carta. Una ricerca di De Zan che ritroveremo: paziente, difficile e raffinata, questa impresa di essenziali dissezioni di forme, spesso risolta come un sapiente gioco. Proprio Bruno Munari ha visitato nei primi anni ’90 Guido e il suo laboratorio, accompagnato da un comune amico, il designer Marco Ferreri. Avrebbe anche voluto che si facessero ‘delle cose’ insieme, e ha lasciato non pochi schizzi. Su di lui ha scritto nel 1994, con il suo solito, brillante acume, sottolineando che “Guido è uno dei pochi ceramisti che si preoccupa di dare non solo una forma ai suoi oggetti, ma anche una pelle particolare, una textura fatta a mano da lui stesso, secondo la forma dell’oggetto”.
Forme solo a prima vista semplici ed essenziali, solo apparentemente spoglie di decori, smaltate o lasciate naturali così che la stessa materia possa esprimere la propria textura e colorazione, caratterizzano tutta la produzione di De Zan, dall’oggetto d’uso al pezzo unico ‘d’arte’, piccole sculture a tema. “[...] L’argilla [...] se è solo liscia vuol dire che interessa solo la forma, ma se invece ha una superficie texturizzata allora è più interessante perché ha un motivo in più per essere osservata”, ha scritto ancora Munari nel suo testo per Guido De Zan La pelle d’argilla, slanciata piccola monografia stampata da Lucini. E dove due puntuali testi di Marcello Sèstito – architetto ma anch’egli creativo restitutore (nel senso di ‘chi restituisce’) di brani di città attraverso disegni e sculture polimateriche – accentrano l’attenzione proprio sul segno di De Zan: “Arcaici graffiti sulle superfici fluttuanti e scabre [che si sostituiscono] alle parole”. Segni quasi graffiti, allora, a susseguirsi, incisioni, pennellate delicate a suggerire poetici riferimenti arborei o zoomorfi, intriganti craquelé a scaturire da una tecnica raku ben conosciuta e la cui padronanza permette di riproporre pilotate sbavature.
Segni e forme d’uso che vengono dalla tradizione orientale, giapponese soprattutto, che l’artista milanese – qui ceramista – rivisita e reinterpreta con intelligente autonomia. Sèstito cita Kuki Shūzō, filosofo, poeta e scrittore giapponese, autore del testo teorico dell’iki – la capacità di destreggiarsi emotivamente in situazioni di tensione, capacità di coniugare spontaneità e artificio raggiungendo un grado di raffinatezza supremo sia sul piano etico che estetico –, suggerendo come le microarchitetture di De Zan (molto apprezzato in quell’isola lontana) ben potrebbero entrare a far parte di questo concetto/atteggiamento creativo. Ricordiamo allora la sua presenza al Corner Craft di Daimaru a Fukuoka nel 1993, nonché le personali alla galleria Raimokukan di Kurume nel 1994 e nell’elegante showroom di interior design Idée, a Tokyo nel 2016.
Contaminazioni d’arte
Nel guardare le sue microarchitetture, e non solo, è immediata un’osservazione dalla parte dell’arte/ cultura europea/italiana: nei suoi lavori si ritrovano echi, suggestioni, sottigliezze concettuali che rimandano alle avanguardie, ad Arp, Brâncuşi, Melotti, e a un certo design nordico. ça va sans dire, De Zan si avventura costantemente in territori di confine. Come non ritrovare allora il sintetico rigore morandiano, l’emozione della matericità e il terso raggiungimento della forma in quell’oggetto – a dirla ancora con Sèstito – che “a partire dalla quotidianità domestica, va a conquistare uno spazio esterno fatto di ombre riflesse, di leggere incrinature, di fenditure e connessioni [...]”?
La sua è una ceramica-scultura che poggia su contaminazioni provenienti dall’Astrattismo al Concettuale, sulla commistione fra più linguaggi, sgranando grammatica e sintassi con totale, silenziosa, sicurezza/competenza. Anche le forme d’uso che definiscono piatti, ciotole, ciotoline, tazze, tazzine (declinate con o senza presa), teiere, vasi/ciotola, vasi piccoli e grandi dalle diverse configurazioni e dimensioni, dalle più storiche alle più inconsuete, a mimare delle figure e a presentarsi anche, grazie ad una sagace grafica, l’uno dentro l’altro, o in coppia, così appiattiti alcuni da poter essere denominati ‘sogliola’ o così lavorati da diventare geometricamente spigolosi, il lineare ed essenziale segno/decoro a dare loro un riconoscibile carattere, ci riportano allo stesso suo mood creativo, metodologico e progettuale.
Ancora, ecco plotoni di bottiglie, cilindriche, quadrate, rettangolari, che si propongono in inusitate posizioni, ad affiancare inaspettati pannelli e scatole che racchiudono ali, figure, ombre: composizioni geometriche plastiche e sinuose. Oggetti tutti che, oltre a quello dell’uso, della funzione, hanno un ruolo estetico-affettivo grazie al racconto sotteso in ognuno di essi. E se “agli inizi del mio lavoro c’era il vaso tutto tondo, fatto al tornio”, racconta Guido, “poi sono arrivate le lastre, e così il vaso o la scultura hanno preso di volta in volta forme sinuose o geometriche, con sezioni non più tonde ma ellittiche”.
Anche il suo lavoro di foggiatura a lastra – un tipo di tecnica molto diffuso e più semplice da imparare – porta a soluzioni formali di grande interesse, a dar vita a immagini antropomorfe, dalla fisicità e fisionomia ben definite: primattrici o in coppia, ‘personaggi/figure’ nelle più svariate posizioni che ricordano, pur nella loro plastica, monocromatica essenzialità, le figurine delle ceramiche policromatiche smaltate ma anche animali fantastici.
“Figure [che] si sono unite ai loro simili e hanno formato gruppi”, commenta De Zan. “Teatrini in cui raccontarsi e sostenersi vicendevolmente”, con silhouettati attori, o dove protagonisti sono i volumi, gli incastri, personaggi che si propongono in dialogo a coppie, a gruppetti: “I miei personaggi hanno raggiunto un equilibrio, per quanto precario. Sono contento quando le persone interpretano questo stato come leggerezza e serenità, con quel tanto di ironia utile a farci vivere”. Qui ripensiamo a Munari. Ma quando queste “figure hanno mantenuto la rigidità geometrica, ricordano strutture urbane che prese insieme formano un paesaggio”. E si torna al De Zan animale urbano.
Contaminazioni materiali
Amore per la forma ma anche per i materiali. De Zan si cimenta con la porcellana a volte contaminata/racchiusa con il legno o l’argento, così come con il legno o il ferro. Non si può dimenticare il De Zan incisore, che ritroviamo sia nelle Tavole, che sempre Sèstito ci propone di scorrere come “pagine di un romanzo senza destinatario [...]”. E le commenta: “Irrigidite dalla cottura [...] non ammettono correzioni [...] né appunti a latere”. Di particolare interesse le Tavole realizzate nell’autunno 1993 per Alpa Magicla Edizioni di Alberto Rambaldi, una ricerca di ben 135 opere in porcellana, tutte diverse l’una dall’altra, ognuna firmata dall’artista, appartenenti a una collezione di libri-oggetto che annovera nomi prestigiosi, da quello di Munari a Giosetta Fioroni, da Antonella Ravagli a Gilberto Zorio, e che verrà esposta alla Biennale Internazionale della Ceramica di Faenza nel 1993, e all’Arte Fiera di Bologna e al Museo Pecci di Prato l’anno successivo. Ma lo ritroviamo anche in carte dalle superfici marcate o lisce, carte più propriamente destinate alle tecniche tradizionali dell’edizione d’arte, o in cartoncini di diversa provenienza, riciclati!
Il suo mestiere d’arte matura in un costante divenire, acquisendo autonomamente le competenze più utili per esprimersi, sottesa la passione per la materia – “Il ceramista è fra i pochi artigiani che ancora mettono le mani in pasta”, ha scritto (2016, cit.) – e per l’oggetto. Un percorso, il suo, molto personale: percorso di formazione che coniuga la preparazione primigenia e ideologica con un fare che, nel tempo, si è confrontato non solo con ben individuate esperienze linguistiche delle avanguardie ma anche con quella cultura del design nella quale si è trovato immerso, in quel di Milano, alle Colonne di San Lorenzo, dove ha bottega.
Design e architettura. Davanti ai suoi manufatti – non mi piace chiamarle ‘opere’ – non si può non pensare di trovarsi di fronte il più delle volte a riflessioni che riportano proprio alla città, e a quel paesaggio urbano che De Zan coglie anche attraverso lucidi scatti fotografici che ci ripropongono i suoi percorsi quotidiani o alla scoperta del nuovo. “Ho l’abitudine di tenere sempre in tasca la mia fotocamera con la quale posso cogliere ogni momento, oggetto, paesaggio che mi interessa, ovunque mi trovi” (2011). E se i suoi pezzi coinvolgono per le loro forme, una storia in più, emozionante, è raccontata da quelle superfici/pelle che le contengono/determinano: lievi segni graffiti sempre diversi, lo si è già accennato, all’insegna di personali geometrie, essenziali e che non indulgono al decorativismo, e che svolgono/rispondono anche a questo affascinante ruolo.
“Guido De Zan ha avuto, rispetto agli artisti per i quali la ceramica è lingua madre, una fortuna iniziale: di diventare, non nascere, ceramista”, ha scritto Flaminio Gualdoni dieci anni fa, nel 2008. “Ovvero, di non fondare la propria identità su un apparato e su un bagaglio retorico di tecnica che intoni ogni tratto della riflessione intorno al fare, bensì di aggiungere il possibile straordinario e per certi versi illimite della tecnica, e del pensiero della materia, a un rimuginio intellettuale che si elaborava su uno spettro d’interessi ben più ampio, su diverse basi e su frequenze intellettuali altre”.
È proprio vero che questo intelligentemente poliedrico personaggio, silenzioso e schivo, come altri artisti che vivono criticamente la ceramica, fugge ritualmente dal bagaglio tecnico comunque ben acquisito, cercando differenziazioni qualificanti nell’elaborazione plastica e nei suoi racconti, che si concretizzano nella realizzazione anche di gioielli e decori per il corpo: collane, anelli, orecchini, pendenti, spille in porcellana e argento, realizzati fin dagli anni ’80.
Non mancano miniaturizzati e minimalisti Presepi in porcellana biscuit, bianca soprattutto, o smaltata nera, dall’emozionante opacità o accennata lucentezza, dove le minuscole figure di Maria, Giuseppe e del Bambin Gesù (a volte una culla a rappresentarlo), sono omaggiate da silenziosi personaggi contemporanei, leggeri e aerei, che si collocano intorno ai protagonisti o in fila, in movimento, le automobili a sostituire i cammelli... Presepi laici e surreali, contestualizzati in non luoghi che De Zan ha iniziato a mettere in forma dopo un viaggio a Napoli e una visita non solo a Capodimonte ma anche a San Gregorio Armeno e a San Biagio dei Librai. E di cui ha scritto Marta Isnenghi, ben titolandoli Le statuine volanti di Guido de Zan, nel ricco volume dedicato all’affascinante storia lombarda della Natività in cui i presepi di De Zan sono stati colti dalla squisita sensibilità fotografica di Mario De Biasi (AA.VV., Natività e presepi. Nell’arte e nella tradizione a Milano e in Lombardia, Celip, Milano 2007).
Le variegate ma ripetute tipologie che si riconoscono nei decenni del suo fare, dai teatrini alle figure umane che anche li popolano, dai paesaggi urbani alle torri alle stele, dalle sculture a muro/nature morte ai pallottolieri, dai vasi ai contenitori, rivelano tutte un’eleganza certo estetica, ma a tutte è sottesa una profonda etica del fare, e ricorriamo ancora, per chiudere, a una strofa di Alberti Schatz:
La mano che travasa
confini di ieri e di domani
nella speranza muta
di far mutare il mondo.
(*) È il titolo di un libro del 1944 di Alberto Savinio che è una dichiarazione d’amore per Milano e in generale per la civiltà urbana: vie, monumenti, edifici, personaggi, modi di essere e di sentire.